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Sabato, 20 Aprile 2024
Cultura

SPECIALE CONCORSO “LUCIA FERRARA”. “All’ombra del successo. Donne imbavagliate e dimenticate” di Lara Bottone

E' la seconda classificata nella categoria “Racconti"

Casertanews ha scelto di essere media-partner del concorso letterario intitolato alla memoria di Lucia Ferrara, una giovanissima ragazza di appena 17 anni, scomparsa troppo presto, che amava leggere. La sua passione è diventata una memoria che non dovrà più scomparire. E' stato così indetto un concorso dedicato ai ragazzi di età compresa tra i 10 e i 21 anni, che frequentano la scuola secondaria di primo grado, di secondo grado ed i primi anni di università. Di seguito pubblichiamo “All’ombra del successo. Donne imbavagliate e dimenticate” di Lara Bottone (18 anni) seconda classificata nella categoria ‘Racconti’.

ALL'OMBRA DEL SUCCESSO. DONNE IMBAVAGLIATE E DIMENTICATE

PARTE I: Tradimento

«Mi sono sempre distinta in tutto ciò che ho fatto. A scuola ero sempre tra i primi della classe. E sottolineo “primi”, perché ero talmente brava da avere il diritto di frequentare una scuola maschile. Un’intelligenza superiore che sono riuscita a potenziare grazie all’aiuto di mio padre, che ha sempre avuto fiducia in me, allontanandosi dalle credenze del tempo. Probabilmente è da lui che ho ereditato la forza di non badare al giudizio altrui. Infatti venivo spesso presa in giro: troppo zoppa, troppo bruttina, troppo dotata per essere una donna. E se non la bellezza, ad una giovane ragazza, cosa le resta? Senza un uomo che possa prendersela e sposarsela e senza dei figli a cui badare cosa le resta? Ebbene ho potuto constatare personalmente e sono giunta più lentamente alla stessa conclusione: niente. La gente parla, dice cose, alla radio, sui giornali e dà titoli, dà premi, senza conoscere la persona. Ho sentito dire di tutto su di me, ma non tutti mi hanno ascoltata. Se qualcuno udisse il mio nome, non saprebbe neanche chi sono, a quale epoca appartengo, da quale pianeta provengo; tuttavia se fosse pronunciato insieme ad un altro, subito mi riconoscerebbe. Ma non per come vorrei essere ricordata. Da ragazza mi sono dedicata quasi interamente ai miei studi, non mi importava di altro. Mi ripetevo “non farti mai scombinare la vita da un uomo” ed ero certa che non l’avrei mai fatto. “Una donna di scienza” mi definivo, ritenendomi una persona piuttosto razionale. Anzi, una persona totalmente razionale. Eppure qualcuno che mi ha preceduto amava dire che “il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce”. E non posso contraddirlo. Rievocando tutti i ricordi adesso davvero non comprendo le ragioni per le quali ho fatto quel che ho fatto. E penso solamente che forse mio padre aveva riposto troppa fiducia in me. Durante il mio percorso di studi ho avuto l’opportunità di essere ammessa in una scuola prestigiosa a Zurigo. Ormai vivevo la mia vita in contesti maschili e paradossalmente proprio così caddi nella trappola dei nostri tempi e nel tranello che mi ero sempre ripromessa di evitare: incontrai un uomo. Gentile, intelligente, simpatico. Passavamo molto tempo assieme e la maggior parte di questo tempo era impiegato nello studio. La cosa mi piaceva ed anche molto. Troppo. Anche a lui sembrava interessare. Molto. Troppo. E così dopo tre anni ci fidanzammo.

Tuttavia il matrimonio tardava per due principali motivi: la dedizione allo studio e la disapprovazione del matrimonio da parte dei genitori di Albert. Ed è da questo momento che ho cominciato a comprendere che la tela del ragno mi aveva ormai paralizzata. La madre riteneva che io fossi troppo simile a lui: “Vive nei libri come te, tu hai bisogno di una moglie”, diceva. Inoltre temeva ci fosse il rischio che io non avrei svolto al meglio il mio ruolo di donna, a causa della mia età “avanzata” rispetto a lui: “Poi quando avrai trent'anni sarà una vecchia”. Le dimostrai invece che aveva torto e ben presto una vita cresceva dentro di me. Finalmente avevo adempiuto ai miei doveri di donna, mettendo al mondo una splendida bimba, che però vide per poco tempo la mia stessa luce. Tuttavia, poiché la nascita era avvenuta fuori dal matrimonio, ciò rappresentò un bene per il mio ruolo, ma non per la nostra posizione sociale, perché danneggiava la carriera nascente del mio futuro consorte. E così ci sposammo. Io fui costretta ad abbandonare il mio percorso di laurea, ma non abbandonai gli studi. Aiutai mio marito con le sue ricerche come fossero le mie. Ero moglie, ricercatrice ed allo stesso tempo madre dei suoi figli. Amava definirmi “la sua cara, piccola mano destra”. Sembrava perfetto. Gli studi erano i nostri studi, le scoperte erano le nostre scoperte, proprio così come i figli erano i nostri figli, la casa la nostra casa. Sembrava perfetto. Finché tutto ciò che consideravo “nostro” non divenne suo. Incominciò ad impossessarsi di tutto: di ciò che era “nostro” e perfino di ciò che era mio. Il “mio” nome non è stato menzionato quasi mai nelle ricerche conseguite assieme e spesso le tracce del “mio” contributo sono state cancellate, quasi come una damnatio memoriae. Tuttavia cercavo di avere pazienza e di gioire del suo successo come fosse il mio, anche quando fu costretto a spostarsi spesso per lavoro. Finché non scoprii che nel frattempo lui gioiva del nostro successo con un’altra donna. Avevo violato molti principi che mi ero imposta da giovane, ma non ero disposta a tradire la mia dignità. Quello fu ciò che mi colpì più profondamente, perché stavolta non si trattava della sua famiglia o della sua carriera, ma della nostra vita.

Come d’improvviso mi accorsi che la mia esistenza era trascorsa e lui l’aveva vissuta al posto mio. Istantaneamente guardai la “mia” realtà per come era ovvero rubata, espropriata, risucchiata, violentata, deturpata, gettata. Avevo mandato all’aria i miei principi, i miei piani, la mia carriera, la mia vita. E non ne potevo più. Avevo vissuto fino a quel momento in una bolla, rendendomi e non rendendomi conto di ciò che stava accadendo, finché non mi si sono aperti gli occhi. Minacciai uno scandalo, lui andò via, gli amici lo esortarono a ritornare; lui mi presentò un elenco in cui descriveva le circostanze che ci sarebbero dovute essere nell’eventualità del suo ritorno. Recitava così: “Che i pasti mi siano serviti nella mia stanza; che la mia stanza e il mio ufficio siano riservati a me solo; che io e te non si divida nessuna stanza e che non si esca o si viaggi insieme; che tu rinunci ad avere relazioni intime con me”. Lessi e fui sull’orlo di una crisi isterica. Discutemmo per molto tempo riguardo alla separazione. E così divorziammo. Il resto della mia vita l’ho trascorso con ciò che mi era rimasto dopo che lui mi aveva tolto tutto. Albert Einstein è nato nel 1879, in Germania ed è considerato uno dei più grandi geni della storia umana. Lo si ricorda per la sua celeberrima “teoria della relatività”. Aveva dei figli. Ed una moglie che li ha partoriti. Una moglie con un nome. Mi chiamo Mileva Marić. Nel 1903 ho sposato Albert Einstein. Gli ho dato tre figli. Poi sono stata dimenticata».

PARTE II: Accettazione

«Quello scansafatiche! Quel fannullone! Se ne andava a filosofeggiare con gli amici nella piazza senza curarsi né di me né dei suoi figli. Si chiedeva che cos’era questo, che cos’era quello, mentre io brontolavo insoddisfatta di tutto, ovvero niente, poiché niente è quel che abbiamo! Mi irritavo, gridavo, lo rimproveravo a tal punto da essere presa in antipatia da tutta la città. Una volta, presa da uno scatto d’ira scatenato dalla sua assenza, nonostante le numerose mansioni da compiere, esasperata gli scaraventai addirittura un vaso da notte pieno d’acqua dalla finestra! Ho ormai la fama di una moglie che non si sottomette, insopportabile, non comprensiva, ben lontana da quelle caratteristiche che rendono una donna ateniese esemplare. Esse, le donne perfette, se ne stanno lì e tessono la tela aspettando i loro mariti senza fiatare e senza recar loro alcun rimprovero; ma probabilmente loro non avevano sposato Socrate! Passava tutto il giorno in giro a fare domande e a partorire risposte invece di portare cibo e vestiti per la famiglia che avevo partorito io. Mi preoccupavo per i miei figli, per me stessa ed anche per lui che invece mi ripeteva di non aver bisogno delle cose di cui io mi lamentavo. E quando tempo fa gli chiesi come avremmo sfamato quelle bocche in più che stavano per arrivare lui mi rispose che “non sapeva”, come probabilmente “sapeva di non sapere” come riempire lo stomaco della sua progenie affamata. Anche quando si presentò a simposio da noi un personaggio così stimato come Alcibiade non si preoccupò minimamente di allestire un banchetto dignitoso che resi io tale. E mi sorprende che la morte stia sopraggiungendo prima per lui che per me, data la scarsezza di cibo a cui ero costretta. Adesso lo condannano per empietà, proprio per quella sua nullafacenza nella quale si cullava. E lascia me vecchia, sola e senza niente. Come mantenere la calma in queste circostanze? Non mi ha dato neanche il diritto di esprimere il mio dispiacere per la sua imminente scomparsa, poiché mi ha cacciata dalla cella affermando all’amico: “Che qualcuno me la levi di torno e la riporti a casa”. Ed ecco che ora, senza neanche avere avuto la possibilità di dargli un ultimo saluto, son qui a pensare a tutto quel che mi ha fatto passare ed alla condizione in cui mi ha lasciata. Me ne sto a piangermi addosso come una donna ateniese addolorata per l’ingiusta morte del marito. Numerosi furono i litigi, gli scontri e tanta fu l’ira e l’esasperazione che provai nei suoi confronti. Nonostante tutto, però devo tener in considerazione che egli mi sposò, non mi pestò mai e mi volle bene. Ed è questo ciò che basta ad una donna ateniese.»

PARTE III: Rancore

«“... Concederò con grande piacere una delle figlie rimastemi per compensarvi della perdita. Ne ho attualmente due che potrebbero andare bene: una è l’arciduchessa Amélie, che si dice abbia un bel viso e la cui salute dovrebbe promettere una numerosa progenie, l’altra è l’arciduchessa Charlotte che gode anch’ella di ottima salute e ha un anno e sette mesi meno del re di Napoli. Lascio a Vostra Maestà la libertà di scegliere ...” È con questa lettera che la mia amatissima madre ed imperatrice d'Austria, Maria Teresa d'Asburgo, segnò il mio destino. Dovevo già comprendere dalla morte delle mie due sorelle, le quali preferirono prendersi il vaiolo piuttosto che andare spose a quello che poi sarebbe divenuto mio marito, che la mia sorte non sarebbe stata tanto diversa dalla loro, seppur respirando. Al momento della notizia del matrimonio, disperata, tentai di oppormi, strillando e piangendo, ma invano. Tuttavia adesso non incolpo mia madre, che mi ha sempre aiutata e guidata in tutto, ma incolpo colui che mi ha scelta per andare in sposa al re Nasone: mio suocero, Carlo III. Mi scontrai con lui a lungo, temeva le mie azioni e rimproverava il figlio che io condussi, dopo un po' di tempo e con mezzi consigliatimi da mia madre, sotto il mio giogo. Riuscì a controllarmi in buona parte, finché non ottenni il mio primo figlio maschio, Carlo Tito di Borbone, nato il 4 gennaio 1775, che secondo l'accordo matrimoniale, mi avrebbe garantito l'accesso al Consiglio di Stato: ed il mio potere visse più a lungo dei soli tre anni di vita del mio amato figliuolo. In questo modo riuscii ad entrare a far parte del Consiglio di Stato ed a governare con la mia testa il Regno di Napoli ed anche il suo sovrano: ed a questo punto mio suocero perse il controllo su di me e non gli rimase altro che tentare di ostacolarmi tenacemente. Tra i primi provvedimenti che presi fu quello di licenziare il fedelissimo braccio destro di Carlo III, il reggente Tanucci; poi abolii la legge che aveva emanato il caro suocero riguardo al divieto delle Massonerie. E di questo oggi me ne pento amaramente. Odio doverlo ammettere, ma per la prima volta avrei dovuto ascoltare il sovrano di Spagna. Io stessa, da giovane ed ingenua quale ero, ho promosso il diffondersi di questi circoli ed ho anche creato una Loggia Massonica femminile, profondamente ispirata agli ideali illuministi che da lì a poco mi si sarebbero rivoltati contro, a mio discapito. Io stessa sono stata “Massona tra massoni”. Io stessa ho appoggiato gli assassini di mia sorella ed io stessa ho permesso che divulgassero le loro idee radicali e sleali in modo che potesse accadere ciò che è accaduto. Odio il pensiero di non averli odiati, e per questo mi odio. Nata in una famiglia di massoni, con mio padre Francesco Stefano duca di Lorena, mio fratello Pietro Leopoldo granduca di Toscana e Giuseppe II massoni e mia madre ispirata a idee di tal genere, sono stata avviata sin da piccola a questa ideologia. Da giovane ho spinto e divulgato tale corrente, perché io stessa ero fermamente convinta. Una volta preso il potere a Napoli, oltre ad essere entrata a far parte di questa orribile cerchia di genti, ho provveduto alla diffusione di quei principi di “libertà, uguaglianza e fratellanza” di cui tanto hanno chiacchierato quei Francesi. Ho avviato (sempre apparentemente all'ombra di mio marito) il progetto nella Reale Colonia di San Leucio, creando il primo Stato fornito di un Codice di Leggi democratiche impostato su un sistema di uguaglianza e solidarietà sociale, in cui tutti erano uguali, non c'erano differenze né di genere né di ceto. In quel progetto ho messo tutta me stessa, tutte le mie speranze, tutte le mie aspirazioni. Me misera, che illusa che son stata! Io che ho permesso il diffondersi di opere di brillanti pensatori che però poi hanno creato le condizioni per farmi cambiare, per cambiare il Regno, per sovvertire le regole condivise. Don Gaetano, lui morì prima di vedere che cosa sarebbe accaduto ma Lenor, proprio lei, la donna a cui avevo dato tutta la mia fiducia, a cui avevo fatto ottenere divorzio e vitalizio, a cui avevo affidato la cura dei miei amati libri...no, mai mi sarei aspettata che avrebbe applaudito, da lontano, all'ingiusta condanna e ghigliottina della più cara tra le mie sorelle, Maria Antonietta! Come ho potuto credere a tali menzogne, a tali falsità! Io, Maria Carolina, austriaca, razionale, impassibile, ho ceduto a tali assurdità! Io che ho dato tutto a questo Regno: io ho forzatamente sposato il re Cafone; io ho imparato il napoletano, poiché le altre quattro lingue, incluso l'italiano corretto, non bastavano; io ho dato al mio popolo un'immensa e bellissima Reggia di cui vantarsi con un modernissimo giardino inglese ed io ho subito le prepotenze del padre di Ferdinando. E la ricompensa per simili sforzi qual è stata? La testa di mia sorella. Ho fatto realizzare un quadro rappresentante la scena della morte di mio cognato, Luigi XVI, con sotto scritto in calce il giuramento che avrei perseguito la mia vendetta fino alla morte. Ed è quello che farò. E la mia ira si scaglierà oltremodo proprio contro tutti i miei amici, che avevo accolto e protetto, come ben sa la nostra marchesina portoghese Eleonora Pimentel Fonseca, e che mi si sono rivoltati contro in quella farsa che definiscono Rivoluzione Napoletana, ispirati a quelle ridicole idee messe loro in testa dal mio più acerrimo nemico: Napoleone Bonaparte. E si immagini il mio dolore ed al contempo il mio disprezzo quando avrò la notizia che mia nipote, Maria Luigia, proprio lei, lo avrebbe sposato! E così, come se il mio animo non fosse stato già abbastanza martoriato da tali dispiaceri, anche il nostro unico fedele alleato, l'Inghilterra, sarà sul punto di abbandonarci, avendomi dato della manipolatrice con propositi di tradimento, proprio a causa di quel matrimonio del “piccolo caporale” che invece ho disdegnato sin dal primo momento. Mia madre mi aveva istruita per diventare una despota illuminata, e per un periodo lo sono stata, finché non decisi di restaurare l'Ancient Regime. Ferdinando aveva ragione. È arrabbiato con me, mi dice di essere stata cieca. Lui la Massoneria, come il padre, l’ha sempre avversata. Mi accusa di avere avuto troppa simpatia per la libertà e la democrazia. Mi accusa anche di aver voluto quel Codice che neanche voleva dare alle stampe. Per la mia testardaggine non ho perso solo la mia amata sorella, ho perso anche i miei amici. Avevo creduto in loro. E loro hanno usato me. E così, conclusasi la Rivoluzione, grazie all'ammiraglio Nelson, ho deciso di soddisfare la mia sete di vendetta con tutti coloro che mi avevano tradita: i giacobini napoletani. Devono essere puniti per ciò che hanno fatto, per ciò che mi hanno fatto. Terrore, torture e ghigliottine sono il mio nuovo Codice. Un Regno in cui io comando e chiunque decida di contrastarmi, paga con la testa; chi cerca di diffondere idee di tal genere, paga con la testa; chi tenta rivolte di qualsiasi tipo, paga con la testa: ma il debito non verrà mai estinto».

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