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Giovedì, 18 Aprile 2024
Cronaca Carinaro

Chiede a imprenditore di "mettersi a posto", Cassazione conferma condanna

La Corte di Appello lo aveva già condannato a 30 mesi per il reato di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso

E’ stato condannato dalla Corte d’Appello a 2 anni e 6 mesi di reclusione per tentata estorsione con l’aggravante del metodo mafioso ma il 52enne Carmine Lucca ha provato anche il ricorso in Cassazione che però è stato rigettato per “inammissibilità”. Praticamente l’avvocato dell’uomo segnalava alcune imprecisioni in cui sarebbe incorsa la Corte di merito nel ritenere la sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso “giacché, da un lato, la denunzia non fu sporta lo stesso giorno delle minacce estorsive ma il giorno seguente” e poi “è da escludere che la vittima avesse percepito di avere di fronte un presunto camorrista”. Il difensore evidenzia che nella condotta “non sono ravvisabili gli estremi della minaccia mafiosa” rimarcando “l’incensuratezza di Lucca e la sua estraneità a procedimenti per fatti di criminalità organizzata”.

Per il giudice però “le motivazioni sono manifestamente infondate” in quanto “lo scrutinio dei giudici di merito in ordine alla sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso è pienamente aderente ai dati fattuali acquisiti e ai principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, la reiterata richiesta rivolta all’imprenditore, impegnato in un cantiere edile nell’area di Teverola, di “mettersi a posto” recandosi a Teverola o a Carinaro è inequivocabilmente collegata alla richiesta di “pizzo” da parte della congrega criminosa dominante sul territorio, riconducibile al temibile clan dei casalesi”.

La Cassazione è ferma nel ritenere che, in tema di estorsione ‘ambientale’ c’è l’aggravante del metodo mafioso anche la condotta di chi, pur senza fare uso di una esplicita minaccia, pretenda dalla persona offesa il pagamento di somme di denaro per assicurarle protezione, in un territorio notoriamente soggetto all’influsso di consorterie mafiose, senza che sia necessario che la vittima conosca l’estorsore e la sua appartenenza ad un clan determinato. Infatti, la circostanza aggravante del metodo mafioso è integrata anche dall’utilizzo di un messaggio intimidatorio “silente”, cioè privo di una esplicita richiesta, qualora l’associazione abbia raggiunto una forza intimidatrice tale da rendere superfluo l’avvertimento mafioso, sia pure implicito, ovvero il ricorso a specifici comportamenti di violenza o minaccia. Per il giudice in questo caso “andare a Teverola” suggerisce di “rivolgersi al capo della locale cosca” e quindi “non può dubitarsi che la richiesta di ‘mettersi a posto’ sia immediatamente e inequivocabilmente evocativa di una richiesta estorsiva proveniente dal sodalizio dominante”.

Quindi in conclusione il ricorso è inammissibile e il richiedente è condannato anche al pagamento delle spese processuali e a 3mila euro in favore della Cassa delle Ammende. 
 

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