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Cronaca Capua

"Pentiti senza riscontro". Ecco perché la Cassazione ha annullato (in parte) l'arresto di Antropoli

Per gli ermellini l'unica accusa provata è l'aggressione per far ritirare il candidato alle elezioni. "L'ex sindaco regista morale di quell'incontro"

Le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, da sole, non bastano per tenere Carmine Antropoli in carcere. E' quanto ha sentenziato la Corte di Cassazione, annullando (in parte) l'ordinaza di custodia cautelare a carico del medico ed ex sindaco di Capua. Nelle motivazioni, rese note da poche ore, gli ermellini hanno spiegato i motivi dell'annullamento. Ed hanno evidenziato come le accuse di 4 pentiti dei Casalesi (con in testa Panaro e Schiavone) non siano di per sé sufficienti per tenere in carcere Antropoli, anche perché non sono stati ritenuti sufficienti i riscontri portati dagli inquirenti. 

I mancati riscontri ai pentiti

"A parte il generico riferimento, fatto dai collaboratori, alla "disponibilità" del prevenuto - si legge nelle motivazioni - l'indicazione più precisa è venuta da Panaro e Schiavone, secondo cui i soggetti vicini al clan, che avevano rapporti con Antropoli, erano gli imprenditori collusi Francesco e Giuseppe Verrazzo (non coinvolti nell'indagine, nda), ovvero gli affiliati Martino e Antonio Mezzero (entrambi i collaboratori non hanno parlato di loro rapporti diretti col sindaco, ma non sono coinvolti nell'indagine nda); rapporti sviluppatisi sul terreno degli appalti e delle concessioni edilizie (i settori che interessavano al clan). Ebbene, non risulta che le dichiarazioni in questione siano state sottoposte al necessario vaglio critico, tenendo conto del concreto dipanarsi dell'attività amministrativa nei settori indicati dai collaboratori. Si tratta, invero, di settori caratterizzati da elevato formalismo, dove le tracce di condotte devianti sono facilmente rinvenibili, sicché non è dato prescindere dalla verifica, in concreto, dei favori apprestati al clan, costituenti la contropartita dell'appoggio elettorale ricevuto o, stando al tipo di addebito mosso all'indagato, il contributo consapevole e volontario al rafforzamento dell'associazione. Senza la dissodazione di tale terreno le accuse di "disponibilità" formulate dai collaboratori di giustizia restano, sulla base di quanto è stato sopra detto, vaghe e indeterminate, e perciò indistinguibili dalla vox populi".

"Fino al 2016 non ci sono collegamenti coi Casalesi"

Per i giudici della Cassazione "non può dirsi che, per il periodo precedente al 2016, sia stata fornita adeguata motivazione in ordine al contributo di Antropoli al "rafforzamento e consolidamento del clan dei Casalesi, assicurando plurimi affari imprenditoriali al medesimo sodalizio", sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo. "Gli affari imprenditoriali" procacciati al clan non sono stati, infatti, specificati, se non attraverso il rimando ai lavori effettuati nel comune di Capua da imprese più o meno legate a Zagaria, ma senza evidenziare l'apporto di Antropoli alla nascita o allo sviluppo dei rapporti contrattuali suddetti (o, comunque, all'affidamento dei lavori ad imprese colluse), mentre la coscienza e volontà del prevenuto di favorire un'associazione criminale è stata presunta, sul presupposto di un patto affaristico-politico di cui non sono stati precisati i contenuti e senza distinguere tra i vantaggi del singolo (Zagaria) e quelli del clan. Né la conclusione cambia (in ordine all'accusa di concorso esterno nel reato associativo) se si ha riguardo ai fatti del maggio 2016, ampiamente commentati nell'ordinanza impugnata, dal momento che tali fatti sono rivelatori di una cooperazione (tra Antropoli e Zagaria Francesco) nella scelta dei candidati alle elezioni di giugno 2016, ma non di un "contributo" di Antropoli all'associazione criminale, giacché quella cooperazione non si era ancora tradotta in fatti concreti di supporto all'associazione; fatti - è bene rimarcare - da cui non è possibile prescindere per l'integrazione della fattispecie in esame".

"Regista morale dell'aggressione al candidato"

Per gli ermellini, invece, ci sono invece le prove necessarie per quel che concerne le pressioni, le minacce e l'aggressione ai danni di Giuseppe Di Lillo per spingerlo a non candidarsi alle elezioni amministrative di Capua nel 2016 (infatti il ricorso viene respinto in questa parte).  "In questo caso - scrivono i giudici - gli elementi valorizzati dal Tribunale sono tutti oggettivi e significativi, spaziando dalla testimonianza di soggetti non raggiunti dal sospetto (Fusco, Chillemi, Capo e lo stesso Di Lillo) a intercettazioni non equivoche ed accertamenti di polizia, da cui è stato desunto che le pressioni esercitate su Di Lillo, affinché rinunciasse alla candidatura, furono molteplici e significative, fino alla vera e propria aggressione fisica, consumata nello studio di Antropoli, alla presenza del prevenuto e in seguito ad una riunione da lui organizzata. Meramente riproduttive di doglianze già adeguatamente confutate sono quelle sollevate dal ricorrente in questa sede, atteso che si fa riferimento a fatti (la "sorpresa" di Antropoli per il gesto di Zagaria e l'ignoranza delle ragioni che l'avevano determinato) di nessuna significativa valenza (quanto alla prima), oppure chiaramente smentita dalle prove indicate nell'ordinanza (quanto alla seconda). La "sorpresa" di Antropoli per la condotta di Zagaria non esclude, infatti, che l'aggressione abbia rappresentato il culmine di un'azione sinergica, condotta da più persone con lo scopo di "convincere" e poi "costringere" Di Lillo a rinunciare alla candidatura, avvalendosi della collaborazione di un soggetto che, per tutti i protagonisti di questa vicenda, evocava (nel 2016) un sodalizio temibile, radicato sul territorio, tant'è che nessuno prese le difese di Di Lillo, né sul momento, né dopo. La "colpa" di Antropoli non è, infatti, quella di aver partecipato all'aggressione fisica, ma di essere stato il regista di quella morale, sfociata nella rinuncia coatta dell'aspirante consigliere comunale. La "ignoranza" di Antropoli circa le ragioni dell'aggressione fisica sono, invece, chiaramente smentite dalle intercettazioni telefoniche e dalle testimonianze, riportate nell'ordinanza, che rivelano la sicura consapevolezza, da parte sua, delle ragioni dell'incontro e del fine perseguito (peraltro, comune allo stesso indagato). Quanto, infine, al fatto che sia stato Antropoli ad organizzare l'incontro, trattasi di dato chiaramente evincibile dalle intercettazioni e dalle dichiarazioni di Di Lillo (riportate a pag. 22 dell'ordinanza), rispetto a cui i ricorrenti si limitano a svolgere censure i fatto, di nessuna rilevanza nel giudizio di legittimità. La motivazione con la quale si è affermata la sussistenza della condotta dolosa dell'imputato, anche in ordine all'aggravante del metodo mafioso (rispetto a cui i ricorrenti non svolgono, peraltro, nessuna specifica censura), è quindi tutt'altro che manifestamente illogica e a questa Corte non è consentito un intervento in sovrapposizione ricostruttiva".

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