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Cronaca San Cipriano d'Aversa

Casalesi, carcere duro per Di Puorto. “E’ ancora pericoloso”

Ha gestito il business del caffè per Nicola Schiavone

La Corte di Cassazione conferma il decreto che dispone il carcere duro per Salvatore Di Puorto, 47 anni di San Cipriano d’Aversa, che è stato un punto di riferimento del gruppo che faceva capo a Nicola Schiavone, quando il figlio di Sandokan ha avuto un ruolo di primo piano nel clan dei Casalesi. La prima sezione degli ermellini, presieduta da Filippo Casa, ha infatti respinto il ricorso presentato dall’avvocato del detenuto contro il decreto di proroga del regime detentivo speciale.

“Il ricorrente - scrivono i giudici nelle motivazioni della sentenza - pur non avendo mai ricoperto ruoli apicali, doveva ritenersi un esponente di spicco del gruppo Schiavone, nel quale svolgeva il ruolo di gestore delle attività imprenditoriali, attestato dal suo coinvolgimento nella distribuzione del "Caffè del Sud", imposto agli esercenti casertani. Né la mancata assunzione di ruoli apicali nel contesto casalese, nel quale Di Puorto aveva militato nel corso degli anni, assume un ruolo decisivo, dovendosi valutare la posizione consortile del detenuto in un più ampio contesto, rispetto al quale assumono rilievo una pluralità di elementi sintomatici”.

Il Tribunale di sorveglianza di Roma aveva già evidenziato che “la pericolosità di Di Puorto risultava dimostrata dall'importanza, nel contesto camorristico considerato, delle attività delittuose nelle quali il ricorrente veniva coinvolto dai vertici della consorteria casalese, di cui costituiscono la riprova le condanne riportate dal ricorrente per gravi reati, commessi per agevolare il gruppo Schiavone. Non è, per altro verso, possibile dubitare della persistente operatività del gruppo Schiavone, nel quale Di Puorto aveva militato nel corso degli anni, che risultava attestata dalle note informative richiamate nel provvedimento impugnato, nelle quali si dava atto delle numerose operazioni di polizia eseguite in tale ambito camorristico e del fatto che il ricorrente non soltanto gestiva importanti attività economiche nell'interesse del sodalizio casalese, ma si prestava ad attuare le direttive criminali dei suoi vertici nel territorio di riferimento”.

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