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Cronaca Santa Maria Capua Vetere

Omicidio Tondi, 2342 giorni per avere (forse) una verità giudiziaria

Mercoledì è attesa la sentenza del processo per la tragica morte di Katia per la quale è imputato il marito Emilio. I giudici dovranno districarsi tra prove, intercettazioni, testimonianze e l’assenza di un vero movente

Sei anni per avere una risposta. Sei anni per ricostruire una verità (giudiziaria). Mercoledì la Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere (presidente Giovanna Napoletano) emetterà la propria sentenza sull’omicidio di Katia Tondi, la giovane mamma di Santa Maria Capua Vetere strangolata nella propria abitazione al parco Laurus a San Tammaro mentre era insieme al figlioletto (che allora aveva appena pochi mesi) in un caldo sabato pomeriggio. Era il 20 luglio 2013: mercoledì, quando sarà emessa la sentenza, saranno trascorsi 2342 giorni in cui l’unico ad essere finito nel mirino (realmente) delle indagini della Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere è stato Emilio Lavoretano, ex meccanico, marito di Katia. 

Ad accusarlo, soprattutto, l’orario in cui sarebbe stato commesso l''omicidio: tra le 18 e le 19 di quel sabato pomeriggio. Prima delle 18, infatti, Katia era a casa con la mamma, Assunta Giordano. Dopo le 19, Emilio è stato ripreso dalle telecamere di un negozio dove si era recato a comprare alcune cose per il figlioletto. Secondo il pubblico ministero Domenico Musto, dunque, Emilio può essere l’unico ad aver ucciso la moglie, sulla base di una perizia che ha stabilito l’orario della morte dei Katia proprio in quell’ora. Una perizia contestata dall’avvocato difensore Natalina Mastellone e dal consulente della difesa, il professore Vittorio Fineschi. Ma per la Procura non ci sono dubbi: se l’omicidio è stato commesso in quell’orario, l’unico che era presente in casa al momento del delitto era Emilio. Dunque, è lui il colpevole. 

Quello che, però, è mancato fin da subito per permettere alla Procura di chiudere subito il cerchio attorno al marito (sul quale pende una richiesta di condanna a 25 anni) è stato il movente. In un primo momento erano state avanzate ipotesi su possibili tradimenti del marito e sono state chiamate a testimoniare ragazze che avevano avuto rapporti con lui ma che risalevano almeno diversi anni prima dell’omicidio (la coppia è stata fidanzata 15 anni prima di sposarsi). Poi l’attenzione si è spostata sulla gelosia del marito, dipinto come colui che non permetteva alla moglie né di andare dal parrucchiere né di lavorare. Elemento, quest’ultimo, che è emerso anche dalle dichiarazioni della mamma di Katia, Assunta Giordano, e dai suoi familiari.

Ma i suoi racconti durante il dibattimento sono state ampiamente contestate dalla difesa. Soprattutto per la discrasia rispetto alle intercettazioni effettuate a carico della signora Giordano nelle settimane dopo l’omicidio. Dalle telefonate intercettate e dalle parole verbalizzate immediatamente dopo il delitto, infatti, emerge un Emilio completamente diverso da quello raccontato in aula. Si passa dal “rapporto tra mio genero e mia figlia magnifico, si volevano molto bene” del 25 luglio 2013 al “mia figlia non la faceva truccare più per gelosia” del 27 novembre 2017 in udienza. Collegato alla dichiarazione che Katia non avrebbe potuto neanche trovarsi un lavoro per la gelosia del marito, quando invece è emerso che proprio Emilio aveva trovato alla moglie un posto in un bar che proprio Katia aveva lasciato dopo che c’erano stati problemi nei pagamenti dello stipendio.

Ed è su questi elementi (di prova e di dubbio) che la Corte d’Assise dovrà emettere una sentenza nei confronti di Emilio Lavoretano. Mettendo un punto fermo, ad oltre 2300 giorni da quel tragico 20 luglio 2013. 

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