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Cronaca Casal di Principe

La camorra come religione, il pentito: "Il mio credo era il clan"

Di Bona racconta in aula: "Credevo che combattessimo il male ma c'erano troppo interessi economici"

La camorra come una religione. Almeno lo era per Franco Di Bona, affiliato storico del clan dei Casalesi ed oggi collaboratore di giustizia. 

Un "credo" come lui stesso lo ha definito nel corso della sua testimonianza nel corso del processo per l'omicidio dell'imprenditore di San Nicola la Strada Vincenzo Feola che si è celebrato stamattina dinanzi alla Corte d'Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, presieduta dal giudice Napoletano, e che vede alla sbarra Andrea Cusano e Giuseppe Misso

In apertura della sua testimonianza Di Bona ha ripercorso la sua vita criminale "sono stato affiliato al clan dei Casalesi dal 1988 al 1996 quando ho iniziato a collaborare. Ho iniziato con compiti marginali fino a diventare il capozona a Maddaloni".

Poi i motivi della sua scelta di collaborazione con la giustizia con Di Bona che ha parlato di questioni ideologiche. "Essendo ateo il mio credo era il clan - ha detto ai giudici - Poi si sono create crepe da un punto di vista ideologico. Mi sono reso conto che c'erano troppi motivi economici mentre io da idealista credevo che noi combattessimo il male". 

Ma non solo questioni ideali. "Volevo portare via i miei figli da Casal di Principe - ha proseguito - Lì è facile prendere strade sbagliate". 

Nel corso dell'udienza di oggi Di Bona non è stato il solo a raccontare di questioni inerenti alcune dinamiche interne ai clan di camorra. Anche Michele Froncillo, del clan Belforte, ha parlato ai giudici di un "manuale" che gli sarebbe stato consegnato dopo l'arresto dei capi del clan dei Mazzacane. Un vademecum che avrebbe sancito il passaggio di consegne e l'ingresso "ufficiale" tra i vertici del clan. 

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